25 aprile – Si commemora il grande valore della libertà

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Io conosco cos’è la guerra e quanta devastazione provoca … direste voi “Bella scoperta! Lo immaginiamo e lo vediamo in TV!”*. Io, per fortuna, non ho vissuto mai in prima persona una guerra ma l’ho sentita spessissimo raccontare da mio padre Vito che, sin da ragazzino, ne ha pagato le conseguenze con i duri sacrifici, le privazioni, l’omertà imposta, il coprifuoco, la vita nei bunker e la deportazione nel lager nazista. Vi racconterò, in questo articolo, come si vive con un deportato.

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La devastazione a cui mi riferisco non riguarda i danni fisici e materiali provocati agli oggetti o alle persone, ma si rivolge ai danni causati all’anima di tutti coloro che sono stati destinati a sopravvivere alla guerra; vivere si può, ma con la morte nel cuore e gli eterni attacchi di panico che diventano i loro compagni di vita.

Gli anni si rincorsero e il destino di Vito si divertì sulla sua esistenza. Dopo un’infanzia mai vissuta e una giovinezza confusa arrivò la guerra, la Seconda Guerra Mondiale. Dai suoi diciannove anni ai suoi ventuno, la libertà e la dignità gli furono negate. Anche se le sue origini furono umili e la sua vita piena di sacrifici, non si arrese mai alle avversità. Amò la vita, sin dal suo primo respiro e la difese senza mai stancarsi. Il suo motto per tutta la sua vita è sempre stato: «Finché esisto voglio vivere, finché vivo voglio rendermi utile. Finché sarò utile per qualcuno conserverò la mia dignità di uomo. Finché conserverò la mia dignità di uomo potrò aggiungere speranza al futuro»*.

Dopo aver avuto la fortuna di essere tornato dal lager, Vito lottò sempre da solo per non essere complice di nessuno, perché chiunque, con la sua codardia, la sua incertezza e il suo egoismo, sarebbe potuto diventare la causa della sua rovina. Affrontò la vita con molta determinazione, andò avanti per la sua strada molto tortuosa, sempre altero e fiero, senza mai inchinarsi dinanzi ad alcun essere umano… Solo Dio ha meritato le sue genuflessioni. Anche la morte non gli fu causa di timore… Aveva sempre pensato che la vecchiaia non esistesse, così come la giovinezza. Per ogni anno che passava, vide scomparire tante persone che amava e ammirava, giungendo a una sola conclusione: «Il più vecchio è chi muore prima!»*.

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Aveva imparato che non esiste l’invidia tra povero e ricco, ma esiste l’invidia tra ricchi così come tra poveri. «Però tra ricchi non “si spezzano le gambe” e il benessere reciproco non cambia! Tra poveri, invece, l’invidia porta “a scannarsi” per pochi stracci, peggiorando la povertà reciproca. Nel lager, pur condividendo lo stesso miserevole stato, un pezzo di pane non si condivideva sempre, anzi spesso si rubava l’uno all’altro… Quindi ho capito che l’invidia tra poveri è peggiore dell’invidia tra ricchi… La miseria peggiora la miseria e la ricchezza migliora la ricchezza.»*.

Non ha mai creduto al destino e alla fortuna. «Entrambe si creano col duro lavoro, con l’intelligenza, con la volontà, con l’astuzia, con il coraggio e con la voglia di vivere. Se sono sopravvissuto al lager è stato perché avevo voglia di vivere… Per vivere ho dovuto mangiare e bere qualunque cosa. Per vivere ho dovuto curarmi i malanni e le ferite con qualunque cosa la natura mi offrisse. Eravamo tanti ma… ero solo io e Dio. Ero povero prima e, in quel lager, ero più povero dei poveri che avevo conosciuto. Se vuoi puoi … E se puoi sfrutta i tuoi talenti! Nel lager ho conosciuto l’inferno, per questo, qualunque cosa sia accaduta, la vita mi è sempre sembrata il PARADISO!»*.

Io ero sempre rimasta impressionata dalle sue storie e lui, prima di morire, mi lasciò in eredità il suo diario. Proprio sul letto di morte mi chiese: «Ti lascio il mio diario perché tu possa usarlo per non far dimenticare ciò che è accaduto a tanti come me. Per non far dimenticare l’esistenza di questi luoghi dell’orrore. Per non far dimenticare quanto l’uomo sia capace di infliggere dolore e sofferenza ad altri suoi simili… Per non dimenticare quanto il potere rende pari alle bestie!»*.

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La sua vita è finita il 24 settembre 1997 alle ore 17:30 in un candido letto di ospedale, dopo una lunga malattia, che non gli impedì di vivere ogni istante della sua vita perché «Me la sono conquistata attimo per attimo, e ciò che si conquista non si può ripudiare!»*. Eppure, prima di morire, ha perdonato tutti. Proprio tutti. Indistintamente. Per volare via leggiadro, senza la zavorra del risentimento. Per volare via, finalmente libero dalle bassezze umane. Il suo più grande desiderio, dopo la sua dipartita, fu meritare il Paradiso: ossia pace, serenità, gioia e assenza di dolore … Per l’eternità.

Vivere con mio padre, non è stato semplice! Era un uomo dolcissimo, attento, premuroso ma guai a ferirlo, guai a offenderlo… Appena qualcuno tentava di raggirarlo lui diventava un “leone inferocito”.

Spesso gli chiedevo delle spiegazioni in merito al suo “feroce” atteggiamento. Lui si giustificava spiegandomi che le sue reazioni erano frutto del trauma che aveva subito durante il periodo di internamento nel lager. Quando veniva a contatto con persone furbe e prepotenti, in loro rivedeva i nazi-fascisti e sentiva rivivere in lui l’oppressione, la violenza e l’aggressività subita.

Era un uomo che parlava poco, rideva pochissimo ed era molto autorevole. L’unica attività che lo rendeva sereno era l’artigianato; era un fabbro e creava delle opere in ferro battuto. Quando creava le sue meravigliose opere era felice, sereno come un bambino; la sua fantasia e la sua creatività riuscivano a far dileguare i “mostri del passato” e la sua mente si liberava delle continue angosce. Poi, improvvisamente si rabbuiava e si isolava, si accomodava sulla sua poltrona preferita e meditava a occhi chiusi; talvolta scriveva i suoi discorsi o le sue memorie, spesso guardava attentamente i suoi telegiornali e i programmi di politica.

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Vito è stato sempre presente nel sociale, si impegnava nelle lotte per migliorare la condizione dei lavoratori, dei quartieri di Taranto e della comunità. Ogni occasione era buona per narrare le vicissitudini vissute durante la guerra, specialmente quando i suoi interlocutori erano dei giovani studenti. Sembrerà strano, ma gli studenti lo ascoltavano con molta attenzione e gli facevano anche mille domande! Pensate che quando andava ai miei colloqui scolastici non mi portava mai con sé. Al suo rientro gli chiedevo delucidazioni sui giudizi che i professori avevano espresso su di me e lui, pur conoscendo i miei ottimi risultati scolastici, rispondeva sempre: «Mi hanno detto che vai molto bene … però devi fare di più!». Le prime volte accettai di buon grado questa sua considerazione ma, alla fine dell’anno scolastico mi pareva strano di dover fare ancora di più. Questa situazione si ripeté ogni anno per ogni anno scolastico e fino al conseguimento della mia laurea. Fu proprio allora che chiesi a mio padre perchè ogni volta al giudizio dei docenti lui aggiungeva sempre che dovevo fare di più. Lui, con fermezza e con un grande sorriso, rispose: «Se ti avessi detto che eri bravissima, ti saresti montata la testa e non avresti più dato gli ottimi risultati che poi hai conseguito. Figlia mia ricordati che lodare troppo, anche se meritevoli, produce lo stesso risultato del disprezzare troppo. In tutti e due i casi stiamo rovinando una persona. Tu hai ottenuto i tuoi risultati non solo grazie all’impegno ma anche grazie alla curiosità, alla voglia di approfondire e di conoscere nuovi orizzonti. Se io sono uscito vivo dal lagher non è merito della fortuna, è merito della mia conoscenza, sapevo fare mille cose e mille mestieri e avevo voglia ancora di conoscere e di imparare perchè la curiosità comanda la mia vita. Questo mio carattere mi ha permesso di affinare l’astuzia e l’attenzione verso tutto ciò che accadeva intorno a me e mi ha permesso di aiutare non solo me stesso, ma anche gli altri deportati! La nostra società finirà non solo quando non ci sarà più cultura, finirà anche e soprattutto quando non ci sarà più conoscenza! La cultura è la teoria, la conoscenza è la pratica. La teoria se non la metti in pratica non serve a nulla. Il 25 aprile del 1945, quando gli americani entrarono nel campo IX C mi hanno riconsegnato la mia vita… Martoriata, offesa, calpestata ma era la mia vita e io ero ancora vivo e LIBERO! Per questo posso dire a te , che sei la mia erede, e a tutti i giovani che :LA CONOSCENZA RENDE LIBERI!»*.

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Da quel 25 aprile del 1945 tutti noi italiani siamo stati veramente liberi da ogni oppressore, nonostante i corsi e ricorsi storici e politici, siamo ancora qui a vantare la nostra sempre più impagabile libertà. Ma come si può apprendere dalle numerose notizie di attualità, la libertà va garantita e difesa sempre, non è inoppugnabile. Per questo giovani e adulti vanno costantemente formati alla difesa di uno status libero e pacifico grazie alla voglia di conoscenza che ci porterà a trovare ogni tipo di rimedio che possa tutelare la nostra comunità. Libertà significa liberazione dall’odio, dall’egoismo, dai soprusi, dai pregiudizi, dalle etichette e da ogni comportamento che tende a ferire la dignità umana. Buona festa della liberazione a tutti.

* CITAZIONI DAL LIBRO: “Il diario di Victuo – il ragazzo del campo IX-C”

                                                                               

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Angela Astone

Angela Astone

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